editoriale





Scroll Down (la via o il sentiero)

various material, an action.
Sénanque Abbey, France 2013.



Vorrei parlare di un'iniziativa significativa, "invasioni digitali, lanciata dal 24 aprile al 4 maggio 2014. Chiunque può iscriversi e lanciare un'invasione digitale in un luogo storico/museo, finalizzata a valorizzare il patrimonio storico-artistico. Sostanzialmente fai foto che poi condividi subito e metti su twitter.

Ognuno può diventare "curatore" e autore di una propria visione. 

Il risultato? Guardando le immagini su Twitter e sul sito di riferimento, il risultato sembra molto banale. Le persone sono ad una fase che potremo definire "primaria": si limitano a fotografare quello che vedono e metterlo in rete. Il patrimonio viene documentato in modo prevedibile, niente di più. Quasi mai, direi mai, da quello che ho visto, viene proposta una visione critica, che tenti veramente di rivitalizzare il senso e il valore di quello che vediamo nel museo. 

Il risultato è prevedibilmente un caos di informazioni e di immagini tutte uguali, dove ci si limita a documentare frontalmente quello che si vede. Come recita una frase che uso spesso, la gente non vuole più fare il pubblico e neanche l'allievo, la gente vuole entrare nella cosa, ossia sente che c'è già dentro. La "gente" ha tutti gli strumenti per "essere dentro" ma non è detto che sappia usare questi strumenti. Tendenzialmente lo smartphone serve per documentare frontalmente quello che si vede, il figlio piccolino con in mano il biglietto del museo, o al massimo fare l'ennesimo insopportabile "selfie". L'idea di un museo più fluido, e uno spettatore realmente "artista-curatore", è una buona idea, ma bisogna vedere quello che viene proposto. Se il risultato è la banalità più profonda, molto meglio la classica visita guidata con cellulari spenti.







Cy Twombly : (silenzio)
“La gente non vuole più fare il pubblico, né l'allievo, 
vuole entrare nella cosa, ossia sente che c'è già dentro.”




Expectation

dust, glue, a five years whitehouse blog

MART, Rovereto 2009.








Ora che i 15 minuti di celebrità ce li hanno tutti? Ora che tutti possono partecipare? 
Ecco che arriva il curatore, che come il Sacerdote del Tempio, mette ordine, elargisce pubbliche relazioni e dice quello che va bene e quello che non va bene. Quello che ha valore e quello che non è interessante. Questo senza alcuna argomentazione critica. In una grande mostra non c'è certo il tempo per parlare di ogni opera, mettendola in relazione a quelle opere che non sono state selezionate. Il blog può creare questo Tempo di riflessione e decompressione, per argomentare le ragioni delle opere-crocifisso. A volte serve buttare giù il Tempio per testare la forza del Culto. 

La critica non paga, la gente non vuole più fare il pubblico o l'allievo, vuole entrare nella cosa, ossia sente che c'è già dentro.

Qualche anno fà in una corrispondenza privata con Massimiliano Gioni, riguardo la sovraproduzione di artisti e opere, lui mi scrisse che è sempre stato così. A mio parere questa tendenza ha dato un ultimo colpo di coda negli anni 90, e poi le cose sono cambiate dopo la data simbolo del 2001. Naturalmente il pubblico assiste bovino, mentre gli esperti fanno finta di niente e si reiterano sistematicamente le medesime opere e le medesime mostre, anche sul piano internazionale.

Dopo il 2001, mai come adesso, la sovraproduzione di artisti e opere ha richiesto la figura del curatore come ordinatore che dovesse dare significato al caos e alla sovraproduzione. Ma non esistono tempi e luoghi per argomentare queste selezioni, per argomentare le differenze; anche perchè non esistono differenze ma declinazioni e sfumature del medesimo standard. Per questo il curatore diventa un regista che seleziona e affianca le opere secondo le necessità del suo "film-mostra", che a differenza di un film NON E' un'opera unitaria. Dall'altro lato gli artisti sono e propongono standard interscambiabili. Il risultato è un vuoto. Nel senso che nessuno propone un'opera unitaria, l'opera non è più al centro. Il punto dove cade il sasso è lontano, e in galleria come nel museo, si attendono semplicemente pizze come onde di rifrazione.


Le file di artisti similari sono gonfie, e tutti sanno di poter essere sostituiti. Quindi l'artista è debole e condizionato da quelle che sono le necessità del curatore; come operai non specializzati che in fila aspettano di essere chiamati a lavorare nella fabbrica. Naturalmente sono le amicizie e le pubbliche relazioni che fanno le differenze tra le opere. L'opera deve essere solo uno standard. E quindi un vuoto che esiste in ragione di luoghi (place) e pubbliche relazioni (rays). Solo il tentativo e lo stimolo di una critica argomentata può rimettere le opere al centro e farle apparire, nel vero senso della parola, per quello che sono. 


Ma abbiamo detto che la gente vuole partecipare, anzi può partecipare in qualsiasi momento. Vuole entrare nella cosa, nella mostra e nell'opera. Anzi, la gente sente che c'è già dentro. Maneggiare uno smartphone di ultima generazione significa provare questa brezza, senza che questo ci debba provocare chissà quale emozione o sorpresa. Il curatore deve difendere anche da questo, perchè se la gente riesce veramente ad entrare dentro le opere, aumenterebbe ancora di più la confusione; le opere, come dispositivi retorici che legittimano gli addetti ai lavori, verrebbero minate dall'interno, e si rischierebbe di perdere tutto. Perchè le opere sono di dispositivi che legittimano gli stessi esperti/addetti ai lavori.

Aspettare che la gente arrivi al museo o alla biennale in cerca di non si sa bene cosa, non è più una buona strategia. Bisogna giocare in contropiede e tirare la palla al centro delle dimensione locale, micro e quotidiana della gente. Bisogna fare come il salmone che risale la corrente; se internet è un flusso di informazioni che dal nostro privato ci trasporta all'evento, bisogna partire dall'evento e arrivare al privato del pubblico.

Negli ultimi mesi tre eventi possono essere considerati tre diversi comportamenti del salmone: il progetto alla GAMeC è il salmone che risale la corrente fino alla fonte; il progetto a Gordes in Francia (Scroll down) rappresenta il salmone che si ferma, e impone un blocco al flusso, influenzando la corrente verso la fonte e verso la foce; mentre con "Another New Show" il salmone si lascia trasportare verso la foce. Proprio perchè il punto non è l'innovazione o l'azione originale, ma la consapevolezza di come un diverso sguardo sul proprio "locale" sia il primo passo per una rivoluzione o un cambiamento consapevoli.

La mostra "10 settembre 2011" presentata il 12 aprile presso la galleria Zero di Milano è avvenuta come una sorta di attentato, improvvisamente. Anche per il gallerista stesso. La mostra con 7 interventi riassume, e rinnova il percorso fatto in questi 5 anni.






















Articoli pubblicati su Flash Art Italia


Terzo Dialogo con Roberto Ago
















Cy Twombly : (silenzio)
“La gente non vuole più fare il pubblico, né l'allievo, 
vuole entrare nella cosa, ossia sente che c'è già dentro.”





























                  



                                       

















Tutto intorno a te. Un parallelo. 2











Perché ci piace la trilogia video di Yuri Ancarani? Perché i video sono il frutto, curato e poetico, di quello che ognuno di noi farebbe in una cava di marmo, in una strana camera iperbarica o durante una spettacolare operazione chirurgica: riprenderemo tutto con il cellulare. 

C'è una frase di Cy Twombly che riprendo spesso; dice: la gente non vuole più fare il pubblico nè l'allievo, vuole entrare nella cosa, ossia sente che c'è già dentro. Il flash mob sembra una buona idea per far sentire le persone dentro la cosa.

Dopo il picco formale e concettuale dell'11 settembre, l'unica provocazione è essere nella "cosa", dentro la cosa. E ovviamente, come se i turisti iperrealisti di Duane Hanson prendessero vita, fare subito un video o l'ennesima foto. I video di Ancarani, non sono altro che "video al cellulare" fatti però benissimo. Provengono da dentro la cosa, provengono da dove vuole stare il pubblico, e dalla dimensione micro quotidiana da dove il pubblico può effettivamente agire. La dimensione macro-globale è solo un miraggio, esistono solo tante dimensioni micro e locali che agiscono, e la loro tendenza globale (i ricchi diventano sempre più ricchi, le guerre nel mondo, ecc) sarà sempre più debole di quello che potremo fare noi nel nostro micro. L'unico cambiamento, l'unica rivoluzione è lì: nella nostra cava, in ufficio, in casa o nel lavorare bene in sala operatoria. Quello è l'unico spazio politico e rivoluzionario.

Nel maggio 2013 una sigla a caratteri cubitali è stata installata presso l'Arsenale di Venezia. La stessa sigla in ceramica andrà in mostra questa estate in Abruzzo. La sigla è incomprensibile, ma il titolo ci viene in aiuto: "se non capisci una cosa cercala su you tube". La sigla infatti corrisponde ai titoli attribuiti in progressione ai video che vengono fatti dal nostro smartphone. Alcuni di questi video vengono subito trasferiti su You Tube, direttamente dal cellulare e mantengono questo strano titolo. Digitando su You Tube "IMG 3733"(che è anche il nome che documenta un recente intervento a Versailles) saltano fuori una serie di brevi video amatoriali, su accadimenti marginali, spesso estremamente poetici, che riprendono il dentro della "cosa". Video con pochissime visualizzazioni, che le persone fanno quasi per gioco; per testare il mezzo e l'immediato trasferimento su Internet. Questi video rappresentano l'altra faccia della medaglia della trilogia di Yuri Ancarani. Sono la componente consapevole, la radice, da cui proviene il fascino dei video di Ancarani. Un fascino molto relativo, e non diverso dal vedere in televisione o su internet un video di qualcosa di reale e semmai poetico. I gesti del capo cava, l'attesa nel capire cosa stiano facendo alcuni strani astronauti, la macchina capace di andare oltre le capacità dell'uomo, potremo continuare all'infinito. Inoltre la trilogia è ancora più interessante perchè sostenuta dalle persone e dai luoghi giusti. Oltre qualsiasi voglia e capacità di chiedersi sinceramente quale valore abbia il video che abbiamo difronte. 

 La rappresentazione, pensata e preparata in studio, non regge più il confronto con la realtà, condannandoci tutti ad una sorta di turismo creativo, armati di smartphone. "Tutto è intorno a te" come recitava significativamente uno slogan per cellulari a fine anni 90.

Siamo tutti in attesa del prossimo flash mob improvviso da riprendere, conservare o postare immediatamente su internet. Tutti possiamo partecipare e avere i famosi 15 minuti di celebrità profetizzati da Warhol negli anni 60. La criticità della trilogia di Ancarani sta nel partecipare all'andazzo generale, alla sovrapproduzione di contenuti, piuttosto che prendere consapevolezza e reagire a questo; e quindi vivere quello sfasamento con il presente che è necessario perchè qualcosa sia contemporaneo. Diversamente abbiamo la moda che è tale perchè in linea con il presente e con le cose scelte dalle persone giuste. 

Alla trilogia si contrappongono in questo momento 697 video (che abbiamo se digitiamo su you tube IMG 3733).Seicentonovantasettologia.

Ancarani, come ognuno di noi, partecipa ad una forma di turismo creativo e collettivo, che sembra affascinarci tanto. Il passo successivo è necessariamente andare a lavorare dentro la cosa, con tutti i rischi del caso. Come se nella cava di marmo, nella camera iperbarica o nella sala operatoria, girassimo il cellulare nelle mani dello spettatore. E riportassimo lo spettatore nel proprio privato, dentro alla sua cosa"10 settembre 2001" e "Tutto intorno a te (notturno)" vorrebbero fare questo.


se non capisci una cosa cercala su you tube

various material
Arsenale, Venezia 2013.





















                  



                                       







10 settembre 2001
(installation view)

Galleria Zero, Milano (2014). 














Articoli pubblicati su Flash Art Italia



Terzo Dialogo con Roberto Ago








La rivoluzione siamo noi



Pasqua
20 aprile 2014
Villa Panza, Varese 2014.




Luca Rossi: Chi è per te Luca Rossi?

Maurizio Cattelan: Mi sembra quello che firma i fac-simile della dichiarazione dei redditi.

LR: Hai parlato della necessità di recuperare la tua “indipendenza” e quindi di prendere le distanze dal sistema dell’arte, in particolare dal mercato e dalle polemiche. Vorresti rinegoziare il ruolo di artista. Cosa non funziona nel sistema dell’arte?

MC: La vera anomalia del sistema è che il prezzo alto di un’opera è diventato certificato di qualità. Al di fuori di questo tutto è posto sullo stesso piano, mancano punti di riferimento critici rispetto ai contenuti.

LR: Sono d’accordo. Al di là del mercato vige la legge di Facebook: “mi piace/non mi piace”. Allo stesso tempo chiunque può sempre aggiornare il proprio stato e postare centinaia di contenuti. Viviamo sotto un bombardamento di contenuti e di progetti.

MC: E’ come stare con le finestre aperte e chiunque può tirarti in casa di tutto. Il punto non è tanto quello che ti arriva in casa ma è centrare le finestre.

LR: C’è quasi la paura che argomentare e approfondire, al di là del “mi piace”, significhi togliere forza alle cose. Forse perchè non si è tanto convinti di quelle cose. Anche se ho sempre apprezzato e compreso il tuo sottrarti alle interviste, non credi sia venuto il momento di argomentare? Con tutti i rischi che questo comporta. In fondo argomentare criticamente mi sembra l’unico modo per offrire un’alternativa rispetto la dittatura del mercato.

MC: Il mio lavoro fortunatamente non consiste nel fare interviste o scrivere libri. Cerco solo di essere coerente con le mie scelte. L’alternativa al mercato si può costruire anche attraverso delle scelte, delle azioni precise.Image1Image3

LR: Mi sembra che gli artisti, da una parte subiscono e dall’altra parte assecondano questa “religione del mercato”. Perché tu invece che accettare la sfida dei contenuti preferisci allontanarti dal sistema?

MC: Perché da distante le cose si vedono meglio; il sistema dell’arte è come un festa molto rumorosa e colorata: quando ci sei dentro ti travolge, se ti allontani diventa una piccola luce nella notte.

LR: Quindi consigli al giovane artista di allontanarsi dal sistema per interpretarlo meglio? Se pensiamo che oggi, per un artista o un curatore, conta molto essere un buon “operaio delle pubbliche relazioni”, questo tuo suggerimento può essere pericoloso.

MC: L’artista non deve stare al sicuro al centro della stanza, deve preferire l’angolo, le spalle al muro, il pericolo e il fallimento.

LR: Penso che non servano tanto nuovi artisti quanto spettatori attenti, interessati ed appassionati. Esattamente come servono cittadini attenti, interessati ed appassionati. La rivoluzione siamo noi?

MC: La rivoluzione è una suggestione da sabato pomeriggio. Il lunedì è già finito tutto, e si torna a lavorare come sempre. Non c’è tempo per fare la rivoluzione.

LR: Questo fino a quando molti “disoccupati” non si trovano liberi il lunedì mattina. Ma questo non succederà perchè il sistema sa che la cosa migliore è far galleggiare i cittadini in una condizione media, mediocre. Il recinto controllato dell’arte ha il compito di risvegliare da questa mediocrità?

MC: Spesso l’arte serve per dormire meglio. Bisogna stare attenti.

LR: Pensi che siamo alla fine dell’arte comunemente intesa, come opera da appendere o esporre?

MC: Un mercato abituato a comportarsi solo in un determinato modo, non può prendersi il lusso di un tempo di riflessione. La vera ricchezza è la possibilità di gestire il proprio tempo: avere denaro ma non avere tempo non serve a nulla. In questo sistema l’opera d’arte diventa come denaro che non ha tempo di essere speso, non serve; perde il suo centro di interesse.


LR: Nella mostra che sta per inaugurare a New York hai (letteralmente) messo tutte le tue opere al “centro” dello spazio, e le hai sospese. Come se tu volessi rimettere le opere al centro, ma allo stesso tempo mettere alla gogna vent’ anni di carriera. Un modo per mettere tutto in discussione?

MC: Prima di accettare l’invito del Guggenheim ho rifiutato molte proposte provenienti da musei amercani ed europei. Solitamente questo tipo di proposte mi paralizza. Ho detto di sì al Guggenheim per un fatto architettonico; l’organizzazione dello spazio ha costretto inevitabilmente a mettere tutto in profonda discussione. E questo non può che essere positivo.

LR: Mi sembra che la rappresentazione artistica, in questi ultimi anni, sia entrata particolarmente in crisi rispetto and un rapporto realtà-fiction sempre più complesso ed incidente. E’ più difficile fare oggi l’artista rispetto a vent’anni fa? Perché?

MC: Oggi devi sottostare ad alcuni rituali codificati. Se non accetti questo sei fuori, e ci sono centinaia di artisti pronti a prendere il tuo posto. Oggi l’artista, non dico l’uomo,  si deve suicidare; continuare a vivere significa cercare di fare il terrorista con barba e baffi neri: ti fermano subito.

LR: Quando parli di “barba e baffi” penso a percorsi di professionalizzazione forzati, capaci di minare alla base un linguaggio che debba confrontarsi con il presente e la storia. Il sistema dell’arte per come lo conosciamo oggi finirà?

MC: Non ho la sfera di cristallo. Comunque non credo che il sistema si dissolverà. Il sistema cercherà di resistere, esattamente come fanno tutti i sistemi. Sarà l’artista che dovrà ridefinire il proprio ruolo. Prendere profonda consapevolezza di questo è già un primo passo.

LR: Qualche mese fa ho messo insieme una sequenza di immagini in cui il tuo autoritratto, il fantoccio che ti rappresenta in molte tue opere, mostra una somiglianza strettissima con Massimo Tartaglia, l’artista-ingegnere che nel dicembre 2009 scagliò un souvenir del duomo sul volto di Berlusconi. Cosa ne pensi?

MC: La tua selezione prova della relazione ambigua che la realtà può avere con la finzione. Le opportunità della comunicazione di massa unite ad un rapporto realtà-fiction sempre più ambiguo tendono a spiazzare le possibilità dell’arte. O meglio, l’arte dovrebbe reagire a questo spiazzamento.

LR: Come reagire? Cosa intendi concretamente quando esprimi il desiderio di rinegoziare il tuo ruolo di artista?


MC: Io inizierei a legare dell’esplosivo alle lettere che formano le parole “ruolo di artista”.

LR: Condivido questa tua idea. La gente non vuole più fare né il pubblico né l’allievo, vuole essere dentro la cosa. Penso che il blog si uno strumento utile. Cosa ne pensi?


MC: Come tutti gli strumenti va usato nel modo più efficace, anche il blog fa parte di quel bombardamento di contenuti di cui siamo vittime ed artefici.









Riporto botta e risposta commenti da whitehouse:


Leggo sempre con interesse questo blog. Ogni volta che un post mi cattura, spero di trovare nei commenti una discussione avviata e stimolante sulle importanti questioni sollevate. Purtroppo caro Luca, quello che tu cerchi con insistenza nel pubblico (spirito critico, capacità di approfondimento, argomentazioni) è esattamente ciò che il pubblico, pigro e svogliato, evita accuratamente. Il fruitore contemporaneo trangugia novità a ritmi esasperanti. Si annoia a velocità supersonica. Tutto è lento, vecchio. Non si ferma nemmeno un minuto a pensare, distratto dal vortice degli effetti speciali.
Leggendo le parole disincantate tue e di Maurizio è nata in me la tentazione di portare alle estreme conseguenze alcune suggestioni presenti nei vostri discorsi. Indipendenza dal mercato… L’artista nell’angolo e con le spalle al muro… Guardare le cose da distante… Suicidio dell’artista… Ridefinire il proprio ruolo… Legare dell’esplosivo alle lettere che formano le parole “ruolo di artista”…
In definitiva, se il problema è il “sistema” dell’arte, il mercato, allora il problema sono i SOLDI. Il mondo occidentale come lo conosciamo sta andando a rotoli perché è ossessionato dal denaro. Spero che, in questa lenta agonia della società del benessere, gli artisti (non dico tutti ma almeno qualche Artista) riescano a salvarsi, differenziandosi. La smania capitalista del guadagno ha professionalizzato l’arte: è artista solo chi vende, chi guadagna. Allora va bene assecondare i gusti delle masse, produrre a ritmi serrati opere senz’anima, con il solo scopo di stupire, attirare l’attenzione. Il “sistema” dell’arte produce, (si) consuma e crepa: ha perso di vista il significato e il senso della creazione artistica.
Cosa accadrebbe eliminando dalla macchina della mercificazione dell’arte il carburante: il denaro? La DEPROFESSIONALIZZAZIONE priverebbe l’artista della possibilità di vivere d’arte, ma restituirebbe all’arte il suo significato profondo e filosofico. Cancellata l’ansia generata dal “produrre per vendere”, tagliati i vincoli del mercato, si conquisterebbe una nuova libertà: quella di potersi fermare a pensare. Quindi evviva gli artisti della domenica (e del sabato pomeriggio): quelli che il lunedì tornano a lavorare come sempre, ma che nel weekend si concedono il lusso di fare la “rivoluzione”.
messaggio firmato




Rileggo a distanza di quasi 3 anni questa intervista a Maurizio Cattelan e poi leggo anche questo commento di un lettore.

Mi sembra che in questi tre anni non sia cambiato molto. Non esiste una critica d'arte attiva e forse a nessuno interessa una critica d'arte attiva. Non esiste un pubblico, perchè da una parte viene tenuto lontano e dall'altra parte non ha opportunità per avvicinarsi all' arte contemporanea. L'arte è un grande rimosso perchè sarebbe un'opportunità per fare fitness per abituarsi a vedere e quindi nessuno desidera questo; troppo pericoloso per tutti vedere; e allo stesso tempo il pubblico non vuole più fare il pubblico, ma neanche l'allievo. Vuole entrare nella cosa, anzi forse sente che c'è già dentro. Il pubblico è dentro ma non ha tempo di fermarsi. Quando si ferma vuole intrattenimento, vuole giustamente divertirsi. Quanto meno rilassarsi. 

Non a caso l'immagine che presenta il progetto a Villa Panza è una platea vuota. Visibile da una platea fatta da tanti privati, che vedono questa immagine direttamente da casa loro, dentro casa loro; o meglio dove si trovano. Sono dentro la cosa. La cosa è la stanza in cui guardano il display. Bisogna iniziare a pensare che quella stanza è l'unica cosa che esiste. Curare quella stanza. 


LR






















                  



                                       






Pasqua

a cura di 
Luca Rossi
Villa Panza (Varese)
20 Aprile 2014



10 settembre 2001
(installation view)

Galleria Zero, Milano (2014). 












Articoli pubblicati su Flash Art Italia



Terzo Dialogo con Roberto Ago


















    
Noi non cesseremo l’esplorazione
E la fine di tutte le nostre ricerche
Sarà di giungere là dove siamo partiti,
E conoscere quel luogo per la prima volta.

T.S. Eliot – Quattro quartetti



Cy Twombly : (silenzio)
“La gente non vuole più fare il pubblico, né l'allievo, 
vuole entrare nella cosa, ossia sente che c'è già dentro.”






Ora che i 15 minuti di celebrità ce li hanno tutti? Ora che tutti possono partecipare? Ecco che arriva il curatore, che come il Sacerdote del Tempio, mette ordine, elargisce pubbliche relazioni e dice quello che va bene e quello che non va bene. Quello che ha valore e quello che non è interessante. Questo senza alcuna argomentazione critica. In una grande mostra non c'è certo il tempo per parlare di ogni opera, mettendola in relazione a quelle opere che non sono state selezionate. Il blog può creare questo Tempo di riflessione e decompressione. Per argomentare le ragioni delle opere-crocifisso del Tempio. A volte serve buttare giù il Tempio per testare la forza del Culto. 

La critica non paga, la gente non vuole più fare il pubblico o l'allievo, vuole entrare nella cosa, ossia sente che c'è già dentro.

Qualche anno fà in una corrispondenza privata con Massimiliano Gioni, riguardo la sovraproduzione di artisti e opere, lui mi scrisse che è sempre stato così. A mio parere questa tendenza ha dato un ultimo colpo di coda negli anni 90, e poi le cose sono cambiate dopo la data simbolo del 2001. Naturalmente il pubblico assiste bovino, mentre gli esperti fanno finta di niente e si reiterano sistematicamente le medesime opere e le medesime mostre, anche sul piano internazionale.

Dopo il 2001, mai come adesso, la sovraproduzione di artisti e opere ha richiesto la figura del curatore come ordinatore che dovesse dare significato al caos e alla sovraproduzione. Ma non esistono tempi e luoghi per argomentare queste selezioni, per argomentare le differenze; anche perchè non esistono differenze ma declinazioni e sfumature del medesimo standard. Per questo il curatore diventa un regista che seleziona e affianca le opere secondo le necessità del suo "film-mostra", che a differenza di un film NON E' un'opera unitaria. Dall'altro lato gli artisti sono e propongono standard interscambiabili. Il risultato è un vuoto. Nel senso che nessuno propone un'opera unitaria, l'opera non è più al centro. Il punto dove cade il sasso è lontano, e in galleria come nel museo, si attendono semplicemente pizze come onde di rifrazione. 


Le file di artisti similari sono gonfie, e tutti sanno di poter essere sostituiti. Quindi l'artista è debole e condizionato da quelle che sono le necessità del curatore; come operai non specializzati che in fila aspettano di essere chiamati a lavorare nella fabbrica. Naturalmente sono le amicizie e le pubbliche relazioni che fanno le differenze tra le opere. L'opera deve essere solo uno standard. E quindi un vuoto che esiste in ragione di luoghi (place) e pubbliche relazioni (rays). Solo il tentativo e lo stimolo di una critica argomentata può rimettere le opere al centro e farle apparire, nel vero senso della parola,  per quello che sono. 







Him plays (la misura di tutte le cose)

a meter, a walkie-tolkie, polyester resin, polyurethane, rubber, leather, human hair, paint, fabric, information, sunlight.
New York/Warsaw, 2014.




Ma abbiamo detto che la gente vuole partecipare, anzi può partecipare in qualsiasi momento. Vuole entrare nella cosa, nella mostra e nell'opera. Anzi, la gente sente che c'è già dentro. Maneggiare uno smartphone di ultima generazione significa provare questa brezza, senza che questo ci debba provocare chissà quale emozione o sorpresa. Il curatore deve difendere anche da questo, perchè se la gente riesce veramente ad entrare dentro le opere, aumenterebbe ancora di più la confusione; le opere, come dispositivi retorici che legittimano gli addetti ai lavori, verrebbero minate dall'interno, e si rischierebbe di perdere tutto. Perchè le opere sono di dispositivi che legittimano gli stessi esperti/addetti ai lavori.

Aspettare che la gente arrivi al museo o alla biennale in cerca di non si sa bene cosa, non è più una buona strategia. Bisogna giocare in contropiede e tirare la palla al centro delle dimensione locale, micro e quotidiana della gente. Bisognare fare come il salmone che risale la corrente; se internet è un flusso di informazioni che dal nostro privato ci trasporta all'evento, bisogna partire dall'evento e arrivare al privato della gente. Ma senza avere un comportamento prevedibile, il salmone deve anche sapersi far trasportare dalla corrente e poi risalire il fiume.

Negli ultimi mesi tre eventi possono essere considerati tre diversi comportamenti del salmone: il progetto alla GAMeC è il salmone che risale la corrente fino alla fonte; il progetto a Gordes in Francia (Scroll down) rappresenta il salmone che si ferma, e impone un blocco al flusso, influenzando la corrente verso la fonte e verso la foce; mentre con "Another New Show" il salmone si lascia trasportare verso la foce. Proprio perchè il punto non è l'innovazione o l'azione originale, ma la consapevolezza di come uno sguardo micro e locale diverso sia l'unico passo per una rivoluzione o un cambiamento consapevoli.

La mostra "10 settembre 2011" presentata il 12 aprile presso la galleria Zero di Milano è avvenuta come una sorta di attentato, improvvisamente. Anche per il gallerista stesso. La mostra con 7 interventi riassume, e rinnova il percorso fatto in questi 5 anni.