sommario




















L'11 settembre 2001 segna un giro di boa per l'arte contemporanea, intesa anche come la capacità di gestire ogni ambito e anche l'arte del passato. L'attacco alle Torri Gemelle ha tragicamente esorbitato le propaggini "pop" sviluppate da molti artisti negli anni 90. Questi artisti dopo la disgregazione dei due blocchi della guerra fredda, esprimevano tante individualità, esattamente come avveniva in campo politico, dove ogni nazione, fuori dalle logiche della guerra fredda, voleva affermare la propria identità. Gli artisti degli anni 90 (che io chiamo pop corn) remixavano in modalità originali, i loro nonni e genitori, come Duchamp, Beuys, Warhol, facendo grande attenzione ad un nuovo rapporto con il pubblico, attraverso l'uso di codici pop (popolari) come: colori, gigantismo, glamour, provocazione, interazione. Negli anni 90 provocò molto scandalo la mostra Sensation. Quella mostra sembra, allo stesso tempo, morire ed esorbitare nell'attentato dell'11 settembre. Non dobbiamo dimenticare l'aspetto performativo che rappresenta un attentato; ma anche il principio dell'artista come colui che si deve attivare per plasmare politica e società (Beuys); le migliaia di persone che hanno ripreso l'attentato, diventando in qualche modo -tristi- protagonisti ( i 15 minuti di celebrità di Warhol, ma anche il vuoto e la morte dentro le minestre liofilizzate Campbell e oltre la superficie-immagine colorata di Marylin Monroe).

L'11/9 segna l'inizio di una crisi della rappresentazione. Non solo perchè le provocazioni anni 90 sembrano deboli grimaldelli, ma anche perchè ognuno può ricevere ma anche inviare informazioni di immagini e testo. Allo stesso modo, per la prima volta, l'evento 11 settembre è stato ripreso da più punti di vista e poi comunicato; e poi ancora, questa stessa comunicazione, è stata rielaborata, contorcendosi anche in prevedibili tesi del complotto. Ma questo non importa, quello che sembra significativo è che l'11/9 apre all'era dello smartphone e ad una rappresentazione sovraprodotta e congestionata. Ed ecco che nell'arte cresce e si rafforza il ruolo del curatore come colui che deve selezionare e difendere i contenuti in una mare di proposte similari. Oggi più di ieri la selezione del curatore o dell'istituzione sembra dire cosa sia credibile e valoroso. Le opere degenerano sempre di più in un materiale fatto di luogi e pubbliche relazioni.

L'11 settembre apre da una sovraproduzione indiscriminata di contenuti, che a differenza del passato, possono essere "condivisi". E quindi moltiplicati a loro volta. Una crisi della rappresentazione, dove anche i soliti codici pop (provocazione, colore, gigantismo, interazione) rischiano di essere spuntati. In che modo gestire questa sovraproduzione? Come ordinarla? Come non subire questa sovraproduzione? E soprattutto cosa significa subire questa sovraproduzione? Bisogna ordinarla o va assecondata? 

Nel 900 "subire" ha significato non fare la rivoluzione, non cambiare una situazione considerata insoddisfacente. Pensare ad una rivoluzione o a un cambiamento implica DUE presunzioni:

- penso che la situazione attuale sia migliorabile
- penso di poter cambiare questa situazione

Per tanto prima di pensare alla rivoluzione, è necessario un momento di consapevolezza. Penso che oggi il valore di un'opera d'arte non sia l'innovazione e la novità, ma una consapevolezza critica tra opera, intenzioni e contesto. Tale valore non sta nell'opera d'arte ma in una nuvola MAV (modo, atteggiamento, visione delle cose). Dovremo dire MAVC, ma suona male. Da questa nuvola precipitano le opere, che messe in relazione ci portano a definire, per il singolo artista, un certo modo-atteggiamento-visione. L'arte è una palestra-laboratorio dove sperimentare e allenare questi modi-atteggiamenti-visioni che hanno un valore nella misura in cui hanno un valore nella nostra vita di ogni giorno. Diversamente l'arte diventa un esercizio sterile per cinici e disperati. 


Nella nostra vita di ogni giorno penso sia necessaria la capacità di "vedere veramente". Qualche anno fa è uscito un libro di Saramago, dove la popolazione prendeva un virus che non gli permetteva più di vedere. Il titolo era appunto "cecità". Ho dovuto interrompere il libro poco oltre la metà, perchè era fastidiosissimo leggere il risultato di quel "non vedere". E se anche le persone che credono di vedere non stessero vedendo? Intendo dire, se vivessimo in un mondo che in realtà "non vediamo"? Cosa succede se lavoriamo in una stanza buia? Tanti danni. 

Quando diciamo di non capire un'opera d'arte, diamo per scontato di capire tutto il resto. Ne siamo sicuri? O l'opera d'arte agisce come una spia luminosa, che ci avvisa che forse non stiamo capendo tutto il resto? Che forse non stiamo vedendo tutto il resto? C'è la pretesa stupida e romantica che l'arte debba essere diretta, immediata e democratica, quando questo non avviene per nessun ambito umano. Se entriamo in un Tribunale, in una Sala Operatoria o alla Borsa di Milano, possiamo dire di capire tutto? Non credo. E cosa succederebbe se il paziente dovesse capire immediatamente tutte le cose e le pratiche di una Sala Operatoria? Il paziente morirebbe. 
Anche nell'arte servono strumenti, nozioni e conoscenza della storia. L'arte è come una palestra e un laboratorio, dove allenare e sperimentare modi e atteggiamenti che possono avere un valore nella nostra quotidianità.

Questo aspetto didattico non interessa e fa inorridire molti puristi. In fondo un pubblico vero rimane distante e abbandonato, quindi disinteressato e inconsapevole sulle potenzialità dell'arte. Gli addetti ai lavori per incapacità o paura preferiscono non approfondire: meglio uno spettatore in meno che uno spettatore con senso critico che può creare problemi di giudizio. Se questa è la linea dei musei italiani possiamo capire perchè sta andando male. 



































Articoli pubblicati su Flash Art Italia


Terzo Dialogo con Roberto Ago










Gli artisti Italiani e la loro assenza dai musei italiani










Artribune sta facendo una carrellata sulle programmazioni 2014/2015 dei diversi musei italiani per l'arte contemporanea. Il primo dato imbarazzante è la pressochè totale assenza di artisti italiani, emersi negli ultimi 20 anni. Emergono artisti italiani giovani e mid-career in una rassegna video (come dire "mandami il cd che ti metto in lista") e partecipazioni "tipo project room". Unica presenza più incidente quella di Francesco Gennari al Museo Marino Marini, testimoniando un canale privilegiato tra il Museo Marini e la Galleria Zero di Milano (visto che diversi artisti di questa galleria sono passati con personali da tale museo). Nulla di male se il Direttore Salvadori apprezza i gusti di Paolo Zani di Zero.

Nella programmazione troviamo invece qualche artista storico. 

Mi viene in mente come alcuni operatori abbiamo riservato ad alcuni commenti su Facebook, la loro ironia rispetto la mia ricognizione sull'arte italiana degli ultimi 20 anni. Forse perchè loro stessi si sentono responsabili; viviamo infatti in Italia una situazione di crisi bivalente: da una parte un contesto che non ha saputo formare e valorizzare adeguatamente, ed ecco la carenza qualitativa e l'assenza di artisti italiani dalle rassegne internazionali; e dall'altra parte un sistema museale e curatoriale che ignora l'arte italiana degli ultimi 20 anni, almeno stando a questi programmi 2014-2015. Ma se guardiamo gli anni precedenti la situazione non è tanto diversa. Aggravata dall'AMACI (associazione musei di arte contemporanea italiani) che non riesce da anni ad incontrare un Ministro della Cultura. 

Che lo scenario sia desolante mi sembra chiaro. Rilevarlo non conta nulla, bisogna mettere in campo soluzioni. Attraverso Whitehouse ci stiamo provando.


Ecco i nomi che emergono in neretto dagli articoli che presentano la programmazione di ogni museo:


Renato Guttuso (Mambo Bologna)


(tutti con opere video in una rassegna al Pac di Milano):
Alterazioni Video
Rä di Martino
Francesco Vezzoli

Diego Perrone

Fratelli De Serio

Invernomuto
Yuri Ancarani

Marinella Senatore
.

Francesco Gennari al Museo Marino marini che nel suo direttore Alberto salvadori, sembra avere una predilizione speciale per gli artisti della Galleria Zero.

Paolo Chiasera e Marina Lai al Man di Nuoro (galleria Massimo Minini)
Antonio Rovaldi sempre al Man di Nuoro (Galleria Monitor). Chiasera e Rovaldi con progetti su cui ci sarebbe molto da dire.

Lucio Amelio (omaggio del Museo Madre al grande gallerista con una mostra).

 Rä di Martino (PROJECT ROOM AL Museion di Bolzano, anche lei galleria Monitor)

Architetto Carlo Scarpa (Venezia, 1906 – Sendai, 1978)

Giovanni Anselmo (1934) e Gilberto Zorio (1944).







SCROLL DOWN (Ora Tutta l'Europa è in Frenata) /// Fondazione Maramotti

per un tempo indefinito





Articoli pubblicati su Artribune





























Andare in un luogo per visitare una mostra implica sempre un viaggio, breve, se siamo in città, più lungo se veniamo da fuori. Questa Estate ho aperto casualmente Il libro dell'Iquietudine di Fernando Pessoa, dove lo scrittore portoghese scrive attraverso un suo eteronomo, Bernardo Soares:


“Viaggiare? Per viaggiare basta esistere. Passo di giorno in giorno come di stazione in stazione, nel treno del mio corpo o del mio destino, affacciato sulle strade e sulle piazze, sui gesti e sui volti sempre uguali e sempre diversi, come in fondo sono i paesaggi.
Se immagino, vedo. Che altro faccio se viaggio? Soltanto l’estrema debolezza dell’immaginazione giustifica che ci si debba muovere per sentire.
“Qualsiasi strada, questa stessa strada di Entepfuhl, ti porterà in capo al mondo.” Ma il capo del mondo, da quando il mondo si è consumato girandogli intorno, è lo stesso Entepfuhl da dove si è partiti. In realtà il capo del mondo, come il suo inizio, è il nostro concetto del mondo. E’ in noi che i paesaggi hanno paesaggio. Perciò se li immagino li creo; se li creo esistono; se esistono li vedo come vedo gli altri. A che scopo viaggiare? A Madrid, a Berlino, in Persia, in Cina, al Polo; dove sarei se non dentro me stesso e nello stesso genere delle mie sensazioni?
La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo.

Per la mostra "Scroll Down (Ora Tutta l'Europa è in Frenata)", presso la Fondazione Maramotti di Reggio Emilia, ho pensato ancora ad un viaggio da fermi. Come suggerisce il titolo, il movimento richiesto non è orizzontale, come per qualsiasi viaggio convenzionale, ma verticale; il titolo suggerisce di scorrere verso il basso la pagina web, direttamente dal luogo dove ci si trova. Vorrei che la mostra fosse nel "luogo dove ci si trova". Viviamo sempre di più ogni luogo (Palestina, Ucraina, Stati Uniti, Catania, ecc.) attraverso informazioni di immagini e di testo. In questo caso possiamo concentrarci sul "dove siamo". Non c'è nessun luogo da visitare. La mostra inizia e finisce in una dimensione privata, estendibile sempre ed ovunque. Tale dimensione rappresenta l'unico spazio politico ancora praticabile, come se il vero Parlamento fosse sempre intorno a ognuno di noi. 
Una sedia di design aereodinamica ferma, e una piccola borraccia di acqua per terra; e sopra la sedia il giornale del giorno. Frenare e fermarsi non significa essere fermi, proprio come lo scorrere da fermi la pagina verso il basso. Esattamente come sviluppo, innovazione e modernità, non significano necessariamente una crescita continua ad infinita, ormai economicamente non sostenibile.








neon, macchie, polvere, uno schermo, materiali vari
2014





























neon, macchie, polvere, uno schermo, vetro, metallo, materiali vari
2014





































neon, macchie, polvere, uno schermo, materiali vari
2014






















ER: Per la tua mostra improvvisa alla Fondazione Maramotti, hai fornito solo il titolo dell'esposizione, senza specificare i titoli delle singole opere. Hai voluto porre l'attenzione su i materiali utilizzati. Tali materiali passano da una realtà credibile, all'immaginazione, al luogo in cui si trova lo spettatore. Cosa intendi quando scrivi "materiali vari"?

LR: Intendo un materiale che non conosciamo, o che non è importante conoscere. 

ER: In alcune opere fai "copia e incolla" con il neon normalmente presente negli spazi della Fondazione. Perchè questa scelta?

LR: Questa scelta ha diverse motivazioni. Mi interessa un ecologia dell'arte, e il "copia e incolla" esprime bene questa ecologia. Mi sembra ci sia la necessità di reagire ad una sovraproduzione di opere e progetti. Questo uso del neon mi sembra una scelta critica. Ma lavorare in questo modo mi ha anche divertito.

EV: Guardando la mostra e riflettendo, capisco che il tuo vero strumento di lavoro è il "mouse" del computer. Lavori di dito e di polso, come fossi un pittore. Ti ritrovi in questa analogia?

LR: Mi ritrovo, sicuramente lavoro come un pittore. Quando lavoro in questo modo mi sembra di sprofondare in una paralisi fisica; solo la mano e il polso si muovono per intervenire. 

EV: Parli spesso della necessità di coinvolgere un pubblico che consideri abbandonato e disinteressato. Credi che questa modalità espositiva e questo tipo di progetti possano aiutare?

LR: La mostra, comunemente intesa, non può essere un momento didattico. Non deve esserlo, mentre è un errore che si fa spesso. Pensiamo se un paziente che ha necessità della sala operatoria debba conoscere macchinari e pratiche della sala operatoria per poter essere operato. Il paziente morirebbe. Nell'arte c'è questa pretesa romantica e stupida che tutto debba essere immediatamente chiaro e coinvolgente, quando non avviene questo per nessun ambito e disciplina.

Anche solo rispetto 30-40 anni fà esistono molte forme e opportunità di intrattenimento, la mostra d'arte contemporanea non può porsi in questa competizione che spesso risulta persa in partenza. Linguaggio e progettualità devono rimanere ben distinti dal momento di education per pubblico. Su questo fronte sto collaborando ad un progetto inedito per l'education. 













































































neon, macchie, polvere, uno schermo, pittura traslucida sul pavimento, materiali vari
2014
















































neon, macchie, polvere, uno schermo, metallo, legno,  materiali vari
2014






































neon, macchie, polvere, uno schermo, metallo, materiali vari
2014













RE-PRINT:Dialogo con Angela Vettese e Luca Rossi (gennaio 2011)




Luca Rossi: Io ho la sensazione che all'estero ci sia un clima più sereno e aperto. Nel 2009 le mi diceva giustamente:" che interesse avrebbe un critico italiano nel non evidenziare adeguatamente un buon artista?" A mio parere c'è un problema di" interesse" per almeno due ragioni. Ho la sensazione che critico-curatore sia più interessato ad essere una sorta di artista-autore, quindi forse entra in una competizione benevola con gli artisti. E' una tendenza consolidata, ultimamente favorita da un appiattimento degli artisti, che il curatore-critico tenda a diventare una sorta di regista.
In secondo luogo mentre l'italia sta vivendo una fase storica pessima, la posta in gioco nel sistema dell'arte italiano è bassissima. A cosa deve aspirare un giovane critico-curatore italiano? A diventare un direttore di museo perennemente in lotta con i tagli alla cultura? Il vero interesse è per la scena internazionale. Questo,in Italia, significa fare i conti con complessi di inferiorità atavici: e quindi si tende a vestire e supportare degli standard linguistici mainstream ( o un certo manierismo di minore o maggire qualità). Standard che non sono interessanti agli occhi dell'estero, perchè sono una copia degli originali esteri. La reiterazione di queste dinamiche disincentivano e mortificano, dentro i confini nazionali,  un confronto critico aperto e la definizione di "nuove" vie. 
   

Angela Vettese: Del resto non mi sembra che si possa affermare che i critici d'arte italiani non siano di buon livello. A parte personaggi della storia come Germano Celant e Achille Bonito Oliva, tre tra i più potenti curatori/critici di oggi vengono appunto dal nostro paese: Francesco Bonami (Biennale del Whitney 2009), Massimiliano Gioni (Biennale di Kwangiu 2010) e Carolyn Christov-Bakargiev (Documenta 2012). Se hanno raccolto tanta stima all'estero così come in Italia, considerando la competizione che vige sul piano mondiale, è improbabile che siano  incapaci di interpretare o valorizzare un'opera o l'operato complessivo di un artista. E' vero invece che l'Italia come paese vive uno dei suoi momenti peggiori, lontani dall'entusiasmo di ricostruzione che generò il neorealismo, lontano dallo stupore per una nuova ricchezza che generò l'arte povera, lontano dall'edonismo, canto del cigno delle potenze occidentali, che generarono il made in Italy anni ottanta e la sua controparte artistica nella Transavanguardia, oggi rimossa ma che domani dovremo tutti rileggere.
I critici italiani che ha ricordato sono di qualità. E penso che abbiano supportato adeguatamente e sinceramente gli artisti italiani in cui credono. Vado a memoria per gli artisti che hanno lavorato con questi tre: Beecroft, Cattelan, Vezzoli, Gabellone, Perrone, Pivi, Assael, Trevisani, Tuttofuoco, Favelli. Apparte Cattelan che ha vestito un linguaggio nuovo e necessario negli anni 90, molti (tutti ?) questi artisti ricalcano linguaggi sovraprodotti e reiterati. In questi artisti vediamo intuizioni interessanti: il clima di beecroft, il vintage sapiente di favelli, le sculture mentali di gabellone, un certo sapore di perrone, il pop vintage di vezzoli, il rideclinare l'arte povera di assael. Ma queste intuzioni non richiedono di più che essere semplicemente evidenziate. Non siamo difronte a scarti linguistici. Menna sostiene che:  “(...) l’opera d’arte è quindi, soprattutto fondazione di un nuovo universo del significato, non un’analisi del già noto: per cui essa si colloca all’incontro tra un momento semiotico, che dà il quadro esatto della situazione del codice nell’atto in cui l’opera viene realizzata, ed un momento ermeneutico, di scoperta di nuovi ambiti di realtà’ . Questa scoperta del nuovo avviene attraverso l’alternarsi di differenze e discontinuità, tra una linea analitica e una dialettica, che gioca molto sulla contraddizione di termini complementari ma opposti. Quindi non ci deve essere un'ossessione al "nuovo"; e quindi credo che  la visibilità dell'arte italiana sia stata corretta rispetto i linguaggi sviluppati. Ciò nonostante permane un assenza di artisti italiani dalla scena internazionale che conta (cit. Pier Luigi Sacco, Flash Art); ovviamente con esclusione di quelle rassegne casalinghe dove il curatore di turno deve necessariamente assicurare delle quote italiane.  

Da molti anni chi rimane in Italia non ha stimoli sufficienti, né tra gli artisti né tra i critici. La storia e le sue ragioni sono più forti di noi singoli. Se ho un rimpianto, peraltro irrisolvibile, è di essermi trovata a operare in un tempo in cui l'Italia è stata un paese progressivamente sempre più debole nelle sue spinte creative. Chi ha saputo esprimersi al meglio, persino tra i galleristi, è andato a cercare altrove i propri stimoli. La mostra che ho dedicato alle residenze d'artista, che a lei è sembrata senza idee e priva di fondamento critico, ragionava invece proprio sulla necessità di spostarsi e andare a vedere com'è il mondo. E certo non è un discorso valido solamente per l'Italia e i suoi artisti. Per tutto questo, a me sembra tanto importante l'aspetto divulgativo e quello formativo, ambiti a cui ho prestato le mie attenzioni più corpose: c'è bisogno di fondamenta.
A mio parere in italia c'è un problema formativo per gli addetti ai lavori ma anche per il pubblico più in generale. E' come uno stato senza opinione pubblica: la presenza di un opinione pubblica (un pubblico con gli strumenti per leggere il contemporaneo) avrebbe ricadute sugli addetti ai lavori e poi sul linguaggio prodotto; per non parlare di come questa cosa possa arginare i famosi tagli alla cultura.  
La mostra che lei e Milovan Farronato avete dedicato alle residenze, era una ricognizione corretta. Come dire il contrario? Avete fotografato la situazione delle residenze. A mio parere non è corretto guardare alla residenze. Come in un recente comunicato del Docva non ho apprezzato che il "successo" degli artisti venisse misurato in termini di residenze all'estero o di qualche apparizione in gallerie private di medio livello.  Questi dati rappresentano percorsi di "professionalizzaione della rapresentazione" che faticano competere con il Presente. Vi competono solo perchè hanno un sistema che protegge e glorifica questi percorsi. A mio parere bisogna recuperare una sincera capacità critica e fare delle mostre come conseguenza di una certa visone critica; semmai integrando residenze ed extra. Ma quì ritorna il problema dell'interesse reale che hanno le persone. 
 Ovviamente sto generalizzando: anche tra gli artisti in residenza ci possono essere cose interessanti.
 A mio parere l'artista oggi deve saper gestire una distanza fisica e mentale da certi percorsi di profesionalizzazione. Questo senza mettere da parte una seria professionalità.
Nel nostro dialogo 2009, avevamo evidenziato due possibili alternative: l'artista come ibrido, come incontro di diverse culture e diverse esperienze, e l'artista che esaspera uno stato, una condizione. Ad oggi mi sembra che viviamo sempre di più in una situazione dove ogni ambito è pervaso e saturo di una creatività diffusa  e sovraprodotta. Siamo pieni di creativi e potenziali artisti. La tragicamente famosa Sabrina di Avetrana, pur vivendo in una periferia estrema, conosce perfettamente i meccanismi "artistici" della televisione, voleva partecipare al Grande Fratello e la prima cosa che ha fatto dopo il fattaccio è organizzarsi un proprio ufficio stampa. Con l'introduzione della macchina fotografica digitale chiunque può sperimentare liberamente la fotografia e diventare "artista".

Non condivido la definizione di artista che soggiace a questa sua considerazione. A mio avviso artista non è chi attira l'attenzione, ma chi sa rendere forma un pensiero e sa farlo in un corpus di opere coerente. Se l'arte visiva fosse “semplice” comunicazione, i politici sarebbero gli artisti migliori, perchè costruire il consenso significa soprattutto sapere comunicare.

Non mi fraintenda. Non voglio nemmeno sposare la retorica per cui "la realtà supera la fantasia". Penso che colui che si pone il problema di "fare l'artista" debba essere consapevole di un certa sovrapproduzione e saturazione creativa. Questo sia nella realtà che in campo prettamente artistico; tanto che spesso i confini tra gli ambiti e le discipline (come anche l'autorialità) tendono a sfumare. A volte, soprattutto nelle ultime generazioni, non vedo questa consapevolezza. Il lavoro artistico (come lo definirà più avanti), la rappresentazione artistica è messa in crisi da questa sovrapproduzione creativa. I progetti di Whitehouse vorrebbero reagire a questo stato di cose; e non si tratta di critica istituzionale, ma di questioni ("tematiche") differenti e indipendenti. 


Per fare un'altro esempio l'arredamento da interni, anche il più dozzinale, ammicca all'arte contemporanea.
Forse ammicca all'estetica corrente, che nasce da sistemi di pensiero come il minimalismo o il costruttivismo, da sempre in connessione con l'arte e il suo linguaggio,  ma soprattutto dalla pubblicità.  La quale guarda con sempre maggiore attenzione all'arte contemporanea. Il collegamento di cui lei parla è reale, ma nasce dall'attraversamento dell'arte in territori vicini. Altrimenti perchè permarrebbero nel gusto comune così tante idiosincrasie e tanto sospetti verso  l'arte visiva sperimentale? Certo, una campagna Prada può essere ispirata da Vanessa Beecroft. Ma chi compera un abito Prada sovente dice di trovare “incomprensibili” le performance che hanno ispirato le campagne pubblicitarie di cui, pure, è vittima o comunque fruitore.
Anche il gommista sotto casa ha idee ben precise rispetto alla propria comunicazione. Potrei andare avanti. In questa situazione di saturazione creativa, che ruolo può avere l'artista per come comunemente inteso?
“Comunemente inteso” è un'espressione vaga. Un artista inteso nel senso in cui lo identifichiamo noi due, cioè colui che appartiene o vuole appartenere alla comunità che fa capo alla tradizione delle cosiddette “Belle Arti” e che è passato attraverso la lezione delle Avanguardie Storiche, delle neoavanguardie e del ripensamento postmoderno e neomoderno,  è soprattutto un creatore di prototipi: colui che inventa un modo di visualizzare il pensiero del suo tempo, colui che è in grado di penetrare nel linguaggio dei media esercitando un'attrazione spesso inconsapevole ma a volte anche voluta nel mondo dei media, colui che genera tipologie di immagini che poi troveremo nel design, nei videoclip, nella regia cinematografica e in molte altre espressioni soprattutto visive.


I media, poi, si incaricano di adattarne il linguaggio potenzialmente sovversivo al gusto caro alla “piccola borghesia planetaria”, per usare un'espressione di Giorgio Agamben, o al “Bloom” inteso come uomo comune, per usare un'espressione del gruppo Tiqqun. E' precisamente questo passaggio a depotenziare il lavoro artistico, nel breve tempo. Spero e credo che nel lungo tempo tracce della sovversione implicita nel lavoro degli artisti migliori sappiamo e possano seminare inquietudine e quindi nuovo pensiero.

Sono d'accordo con queste sue riflessioni.  Bisognerà stare attenti a questo "depotenziamento" del lavoro artistico, evitando di arroccarsi sopra delle torri d'avorio. Un ruolo fondamentale lo possono avere i critici/curatori. Il mio augurio è che ci siano persone che riscosprino questi interessi, e la soddisfazione che possa dare interpretare con sincerità e passione il ruolo critico o il curatore. Intendo reale capacita' di approfondimento e divulgazione; capacita' critica. A me viene in mente la vecchia storia dell’albero che cade in una foresta, senza che nessuno registri qualcosa... e che quindi, in buona sostanza, forse non è caduto affatto. Giulio Andreotti (un politico) sostiene che :" Non basta avere ragione, bisogna anche avere qualcuno che te la dia". Ecco, l'arte contemporanea dovrebbe stare attenta a certe degenerazioni.